Le fonti letterarie e storiche
PLUTARCO
VITE PARALLELE - FABIO MASSIMO
BIBLIOGRAFIA: PLUTARCO - VITE PARALLELE - Pericle e Fabio Massimo
Traduzione e note di Anna
Santoni
R.C.S. Rizzoli Libri S.p.A. - Milano - "I classici della
BUR" - Prima edizione gennaio 1991
Estratti
14. In seguito Fabio depose la
carica e furono di nuovo eletti i consoli. I primi due consoli nominati si
attennero alla tattica di guerra che il dittatore aveva disposto, evitando il
combattimento in campo aperto contro Annibale, recando invece aiuti agli
alleati e impedendo le defezioni. Quando però fu eletto console Terenzio
Varrone, uomo di oscuri natali, ma la cui vita era nota a tutti per il modo con
cui ricercava il favore del popolo e per la precipitazione nell'agire, subito
fu chiaro che per inesperienza e presunzione avrebbe giocato l'intera posta in
un colpo solo. Infatti nelle pubbliche assemblee andava gridando che la guerra
non sarebbe mai finita fino a quando la repubblica si fosse servita di generali
come Fabio; invece lui, Varrone, l'avrebbe conclusa vittoriosamente il giorno
stesso in cui per la prima volta avesse visto i nemici. E intanto che faceva
questi discorsi arruolava e raccoglieva tante truppe quante i Romani non
avevano mai impiegato in nessun'altra guerra: furono radunati per lo scontro
ottantottomila uomini. Grande era l'apprensione di Fabio e di quanti fra i
Romani avevano senno, i quali vedevano che, in caso di sconfitta, la città non
avrebbe avuto più la possibilità di riprendersi se avesse perduto tanti soldati
nel fiore degli anni. Perciò Fabio cercò di far leva sul collega di Terenzio,
Paolo Emilio, che era uomo esperto di cose di guerra ma poco amato dal popolo e
timoroso della massa in seguito a un'ammenda che gli era stata inflitta. Dunque
Fabio incoraggiò Paolo Emilio a opporsi alla folle temerarietà del collega,
facendogli presente che per difendere la patria avrebbe dovuto combattere non
meno contro Terenzio che contro Annibale; erano infatti entrambi bramosi di
combattere, l'uno perché non si rendeva conto della sua vera forza, l'altro
perché era consapevole della propria debolezza. "Io, o Paolo," gli
disse "ho più diritto di Terenzio a che mi si presti fede trattandosi di
Annibale, e ti assicuro che, se durante quest'anno nessuno gli darà battaglia,
o egli perirà rimanendo in Italia o dovrà andarsene in fuga; perfino ora che
apparentemente vince e spadroneggia, nessuno dei suoi nemici è passato dalla
sua parte, e delle milizie che ha portate con sé dalla patria non gliene resta
neppure un terzo". Si narra che a questo discorso Paolo abbia risposto come
segue: "Se esamino, o Fabio, la mia posizione, concludo che per me sarebbe
meglio cadere sotto i colpi delle lance nemiche che una seconda volta sotto il
voto dei miei concittadini. Ma dal momento che la situazione della repubblica è
così grave io mi sforzerò di apparire un buon generale a te piuttosto che a
tutti gli altri che cercano di trascinarmi nella direzione opposta". Con
queste intenzioni Paolo Emilio partì per il fronte.
15. Ma Terenzio, dopo aver
insistito affinché i due consoli tenessero il comando a giorni alterni, si
accampò di fronte ad Annibale lungo il fiume Aufido, presso la città chiamata
Canne,1 e sul far del giorno diede il segnale di
battaglia - esso consiste in una tunica di porpora che viene spiegata sopra la
tenda del generale-, così che da principio i Cartaginesi rimasero turbati
constatando l'audacia del comandante romano e il grande numero dei combattenti,
in confronto dei quali essi non erano nemmeno la metà; ma Annibale, dopo aver
comandato ai suoi di prendere le armi, a cavallo con pochi uomini a suo
seguito, salì su un piccolo poggio per osservare i nemici che già stavano
prendendo i loro posti nelle file. Uno dei suoi compagni, un uomo di nome
Giscone, del suo stesso rango, avendo esclamato che il numero dei nemici gli sembrava
straordinario, corrugando la fronte Annibale ribatté: "Ti è sfuggita
un'altra cosa, o Giscone, ancor più straordinaria di codesta".
"Quale?" domandò Giscone. "Che pur essendo così tanti
uomini," rispose il generale, "nessuno di loro si chiama Giscone."
Questo motto di spirito inaspettato li fece ridere tutti ed essi, scendendo dal
poggio, lo riferirono a quelli che a mano a mano incontravano, così che molti
ne risero di cuore e nemmeno quelli della scorta di Annibale poterono
trattenere la loro ilarità. La vista di tanta allegria infuse coraggio ai
Cartaginesi i quali pensarono che, se il loro generale rideva e scherzava così
nell' imminenza del pericolo, era segno evidente che lo disprezzava
profondamente.
1 Nota n. 79 di Anna Santoni: La localizzazione precisa del
municipio di Canne è incerta: probabilmente nelle vicinanze della moderna
Canosa, sulle rive dell'Ofanto.
16. In quella battaglia
Annibale si servì di due accorgimenti strategici. Il Primo fu di scegliere il
luogo dello scontro facendo in modo che i suoi soldati avessero alle spalle il
vento, che si era scatenato simile a un turbine infocato e, sollevando dalla
pianura piatta e sabbiosa un acre polverone al di sopra dello schieramento
cartaginese, lo spingeva contro i Romani e li colpiva in pieno viso
costringendoli a voltarsi e a scompaginare le loro file. Il secondo
accorgimento riguardò il modo di disporre le truppe: infatti Annibale schierò
alle ali estreme quelle più forti e combattive, mentre formò il centro con i
più fiacchi servendosene come di un cuneo molto sporgente rispetto al resto
dello schieramento. Ai più forti, ai lati, diede l'ordine seguente: quando i
Romani, sfondato il fronte avversario e portatisi contro il punto di maggior
cedimento, si fossero trovati ben all'interno dello schieramento nemico, visto
che i soldati che occupavano la posizione centrale avrebbero ceduto e lasciato
uno spazio vuoto, essi avrebbero dovuto, ripiegando in fretta da una parte e
dall'altra, assalirli ai fianchi e accerchiarli, chiudendoli alle spalle. A
quanto consta, fu proprio questa manovra a causare il massimo della strage.
Infatti, appena il centro ebbe ceduto e fatto posto ai Romani incalzanti, lo
schieramento di Annibale mutò forma e da rettilineo che era si trasformò in una
mezza luna; dopo di che i comandanti delle truppe scelte, facendo piegare
rapidamente i loro uomini, gli uni a sinistra, e gli altri a destra, si
scagliarono sui Romani lungo i fianchi e, presili in mezzo, li massacrarono
tutti quanti, salvo pochi che avevano fatto in tempo a sottrarsi
all'accerchiamento. Si racconta che anche alla cavalleria romana capitò uno
strano incidente: il cavallo di Paolo, a quanto pare ferito, disarcionò il suo
cavaliere, e quelli che gli stavano intorno da ogni parte smontarono per
portare aiuto, a piedi, al loro console; gli altri cavalieri, avendo visto ciò
e pensando che fosse stato dato un ordine generale, scesero tutti quanti da
cavallo e si impegnarono col nemico appiedati. Come se ne accorse, Annibale
esclamò: "Questo mi riesce ancora più gradito che se me li avessero
consegnati legati mani e piedi!". Ma tutti questi episodi sono già stati
narrati da quanti hanno descritto per esteso questa battaglia. Quanto ai due
consoli, Varrone, seguito da pochi, fuggì a cavallo nella città di Venosa,
mentre Paolo, travolto dai profondi frutti di quella rotta, il corpo coperto da
molti dardi conficcati nelle ferite e l'animo accasciato da tanto dolore, si
mise a sedere su un masso, in attesa che qualcuno dei nemici gli desse il colpo
di grazia. Non molti lo notarono, per via del sangue che abbondante gli
imbrattava il capo e il volto, ma persino amici e servi gli passarono accanto
senza riconoscerlo. Solo il giovane patrizio Cornelio Lentulo lo vide, lo
riconobbe e, sceso di sella, gli condusse vicino il suo cavallo e lo invitò a
servirsene e a mettersi in salvo per il bene dei cittadini, che allora più che
mai avevano bisogno di un buon generale. Ma quello rifiutò l'offerta e
costrinse il giovane, piangente, a rimontare a cavallo; dopo di che gli strinse
la mano e alzandosi disse: "O Lentulo, riferisci a Fabio Massimo e siine
tu stesso testimone, che Paolo Emilio ha mantenuto fede sino alla fine ai
propri propositi e non è venuto meno a nessuna delle promesse che gli aveva
fatte, ma fu vinto prima da Varrone e poi da Annibale". Dopo avergli
affidato questo messaggio, Paolo Emilio congedò Lentulo e, gettatosi nel mezzo
della carneficina, morì. Si dice che nella battaglia caddero cinquantamila
Romani, quattromila furono fatti prigionieri e, dopo lo scontro, quelli rimasti
nei due accampamenti, non meno di diecimila furono catturati.
17. Dopo un tale successo gli
amici esortarono Annibale ad assecondare la buona fortuna e a piombare su Roma
alle calcagna dei nemici in fuga; così facendo il quinto giorno dopo la
vittoria egli avrebbe certamente cenato in Campidoglio.